giovedì 17 gennaio 2013

ALLA SCOPERTA DELLE CATACOMBE DI PRISCILLA


Le catacombe di Priscilla, site lungo la via Salaria (vedi sito web), si articolano in diversi ambienti:

-        Il Cubicolo della Velata;

-        Il Cubicolo dell’Annunciazione;

-        La zona dell’arenario;

-        Il Cubicolo dei Bottai, dalla pianta quadrangolare e dal piccolo ingresso voltato a botte;

-        La Cappella greca.

Le gallerie sono scavate nel tufo, tenera roccia vulcanica utilizzata per la costruzione di mattoni e calce, e si estendono per circa 13 km. di lunghezza, in vari livelli di profondità.

ORGANIZZAZIONE GRAFICO–GEOMETRICA E TEMI ICONOGRAFICI DEL CUBICOLO DELLA VELATA


L’ambiente prende il nome dalla pittura della lunetta di fondo, raffigurante una giovane donna, con un ricco vestito liturgico e un velo sul capo, con le braccia alzate in atteggiamento di orante. Ai lati della donna orante sono rappresentati due episodi della sua vita. Al centro della volta è dipinto il Buon Pastore nel giardino paradisiaco, tra pavoni e colombe, preceduto, nel sottarco d’ingresso, dalla scena della fuoruscita del profeta Giona dalla bocca del pistrice. Nella lunetta di sinistra del cubicolo è raffigurato il Sacrificio di Isacco e in quella destra i Tre giovani ebrei nella fornace di Babilonia.



Il cubicolo della Velatio deve la sua denominazione al Wilpert che, originariamente ed erroneamente, interpretò la scena di Velatio nuptialis della defunta come una Velatio Virginis, la solenne consacrazione di una Vergine al Cristo. L’organizzazione grafico-geometrica della volta comprende un clipeo centrale all’interno di un clipeo più grande, con delle lunette e dei pennacchi ellissoidali. Vi predominano linee rosso-verdi, le quali costituiscono l’estrema sintesi della pittura pompeiana . Le geometrie concentriche richiamate dalle linee alludono a un sistema cosmico, laddove il cosmo è la sede dell’anima e dell’aldilà. Per completare e ridefinire l’intelaiatura geometrica, gli artisti inventarono dei segmenti simili a tiranti di una tenda, che assieme agli altri costituiscono un casellario semanticamente consapevole. Elementi zoomorfi e fitomorfi popolano lo spazio: uccelli, quaglie, pavoni e figure umane sono reduplicati simmetricamente al fine di creare un simbolismo cosmico. La scelta della simmetria e della specularità delle figure non è casuale. Dal Physiologus, testo antico che riportava le abitudini degli animali, è tratta l’immagine del pavone, il cui carattere dipende dal contrappunto tra la bellezza fisica che da sempre gli si attribuisce e il suono gracchiante della sua voce. Il pavone è l’uccello del paradiso, mentre i volatili in volo alludono al mezzocielo. Ancora, le quaglie sono uccelli terrestri. Nel cubicolo della Velata pertanto si stabilisce una scala cosmica, ove la quaglia cede il passo agli uccelli, posti su di un gradino inferiore rispetto al pavone.

All’interno del clipeo centrale figura un personaggio, la mano aperta nella presentazione di se stesso, vestito con tunica esomide ed exigua, tipica del lavoro, con fasce crurales, che lo identificano come bracciante o pastore: siamo di fronte al cosiddetto “villico”. Egli è circondato da due ovini, da volatili e alberi, sempre reduplicati simmetricamente.  È chiara la volontà del committente di voler affermare un concetto, come l’intento simbolico sotteso a queste immagini, che diventano uno strumento di trasmissione e di comunicazione. Quale che fosse il vero obiettivo del committente, appare piuttosto convincente l’ipotesi che attribuisce al villico l’immagine del buon pastore dell’omonima parabola: il Cristo o ancora prima la personificazione dell’humanitas, dell’uomo buono. Dal punto di vista squisitamente iconografico, il buon pastore è il pastore crioforo, quell’ hermes psicopompo dell’arte greca e romana da poco pensato in chiave cristiana. Il buon pastore ha un attributo salvifico, tale da ricondurlo alla personificazione della Filantropia: egli è motore e attrattore del cosmo, quell'universo che, nel cubicolo della Velata, sovrasta un altro complesso decorativo di altrettanta rilevanza simbolica.
Il ciclo di Giona costituisce uno dei temi più rappresentati a partire dall’età tardo antica. In primo luogo, perché egli è l’unico profeta al quale Cristo paragona se stesso, e in secondo luogo perché il suo ciclo, ricco di aneddoti “ai limiti della fantascienza”, piacque molto ai fedeli ed ebbe enorme fortuna. Poiché prefigurazione veterotestamentaria di Cristo, Giona trova spazio negli ambienti catacombali, nei sarcofagi e negli esempi di arte minore.

L’episodio dei tre giovani ebrei sottoposti al vivicomburium risulta molto diffuso in ambito catacombale come prefigurazione delle numerosi persecuzioni che, soprattutto a partire dalla metà del III secolo, colpirono i cristiani a opera degli imperatori Decio, Valeriano e Diocleziano. I giovinetti indossano il berretto frigio e gli anaxyrides, l’atteggiamento è orante. Essi cantano le lodi al Signore, ringraziano per il miracolo avvenuto, realizzando in questo modo una sorta di prolessi disegnativa, che sintetizza un evento passato e uno cronologicamente successivo in una sola immagine. Nella prima pittura cristiana esiste una certa reticenza nel rappresentare la figura dell’angelo, sostituita in questo caso dalla colomba noetica. L’angelo può apparire aptero o con ali, secondo i contesti in cui è rappresentato. Da un punto di vista esclusivamente stilistico, gli storici dell’arte parlano in questo caso di una pittura di macchia, quasi “impressionista”, determinata dalla giustapposizione di diversi colori.
Quanto al Sacrificio di Isacco, si devono rilevare alcune varianti iconografiche rispetto ai modelli precedenti e coevi: nella sinagoga di Dura Europos, infatti, Isacco è posto sull’altare, mentre in Priscilla Abramo prepara il sacrificio.
La lunetta di fondo è stata completamente restaurata. La defunta, velata, ha gli occhi levati verso l’alto. La tensione orante è suggerita dalle sue braccia, divaricate e rivolte in alto. Ella indossa una veste talare rossa, vuota, inconsistente. Le fattezze del volto rimandano a quei ritratti di età gallienica, pneumatici o spirituali, di divina ispirazione, conservati a Palazzo Massimo (Roma). Nelle catacombe di Priscilla sono raffigurati tre fotogrammi della vita della defunta. Il solenne vestiario, l’atteggiamento, lo sguardo, suggeriscono che ella è già inserita in una dimensione ultraterrena. La donna allarga le Tabule nuptiales (carte matrimoniali); al suo fianco è un anziano cucullato (incappucciatoche si occupa della liturgia del matrimonio. Infine, compare la donna- madre col bambino, dall’acconciatura a helmfrisur (a elmo), altro dettaglio che riconduce alla “pacifica” età gallienica. La defunta, dunque, è individuata nelle sue molteplici caratteristiche di madre, sposa e assunta in cielo. Tale individuazione costituisce il suo curriculum vitae, dal forte retaggio romano/italico desunto dall’iconografia del quotidiano. 

CUBICOLO DELL’ANNUNCIAZIONE


Nel cubicolo è rappresentata una donna seduta in cattedra e un personaggio che compie il gesto della parola (o del commiato, nel caso in cui si tratti di un defunto). In passato, due scuole di pensiero si sono affermate circa l’interpretazione di questa immagine, letta da molti studiosi come l’Annunciazione a Maria. La scuola di Bonn, insieme con quella francese, ritiene si tratti di una scena pagana legata alla vita della defunta, mentre la scuola “romana” di Wilpert, sulla scorta del Bosio, pur sostenendo il carattere cristiano dell’iconografia in questione, esclude si tratti dell’Annunciazione. Tale ipotesi sarebbe suffragata dall’assenza delle ali nel presunto angelo. Tuttavia, recenti studi hanno dimostrato come gli angeli fossero stati rappresentati apteri anche in altri esempi pittorici catacombali (Ss. Marcellino e Pietro; ipogeo di via Dino Compagni). Dopo il restauro, inoltre, Barbara Mazzei è ritornata a sostenere l’ipotesi dell’Annunciazione. Da una foto precedente l’ultimo restauro si evince come la figura femminile non presenti il capo velato, ma abbia un’acconciatura a stuoia, particolarmente diffusa nell’arco temporale compreso fra l’età gallienica e quella tetrarchica.
  
LA NICCHIA CON LA VIRGO LACTANS

Nel soffitto di una nicchia si trova lo stucco, sfortunatamente in gran parte caduto, del Buon Pastore tra arbusti, anche essi in stucco ma che finiscono in una vivace pittura di fronde e rossi frutti. Alla estremità del soffitto compaiono due scene: completamente caduta quella di sinistra, a destra si conserva una figura femminile, con ogni probabilità la Virgo Lactans con il Bambino sulle ginocchia, affiancata da un altro personaggio, verosimilmente un profeta, che con la mano sinistra tiene un rotolo e con la destra addita una stella. Potrebbe trattarsi della profezia di Balaam: “una stella spunta da Giacobbe e uno scettro sorge da Israele” (Num. 24,15-17). La pittura, in base allo stile, è datata al 230-240 d.C..


LA CAPPELLA GRECA


LA SCENA DI BANCHETTO


L’umidità e l’escursione termica causate dall’afflusso dei visitatori hanno fortemente danneggiato gli affreschi, recentemente sottoposti a restauri. Siamo di fronte a un banchetto animato da una gestualità vivacissima, da una liturgia gestuale solenne. Le figure, variamente individuate, sono disposte lungo una tavola sigmoide. Quale tipo di banchetto è rappresentato? Siamo di fronte a un banchetto refrigerativo?  Neotestamentario?  Edonistico?
Tale scena di banchetto ha una valenza particolare sia per la sua ubicazione, poiché si situa nello zenit della cappella, sia per i molteplici significati ad essa attribuibili. Innanzitutto, si deve ricordare che la Cappella Greca si apre sul criptoportico, un’area alla quale si poteva accedere mediante due vie di accesso, e che per lungo tempo è stata considerata parte della villa di famiglia. Recentemente questa ipotesi è divenuta meno convincente, mentre gli studiosi sono portati a ritenere che in origine l’area fosse deputata al contenimento di cisterne idrauliche.  Il criptoportico, inoltre, ospitava alcuni sarcofagi marmorei. In un nicchione di questo ambiente fu aperta la Cappella Greca, la cui denominazione è legata alle iscrizioni in greco che ancora oggi sono visibili.
Ai lati della scena centrale compaiono due ceste di pani, alle quali in genere è attribuito un significato eucaristico. Del resto, il banchetto funebre in onore del defunto è ricordato da numerose fonti pagane e cristiane, da monumenti pagani e dalla letteratura omerica. Essi potevano tenersi subito dopo la morte del defunto e all’aperto, oppure in giorni successivi al decesso. Allo scopo di sottolineare il concetto della continuità della vita dopo la morte, questi banchetti funebri, già presenti nella ritualità romana, potevano essere celebrati al momento della sepoltura (Silicernium) oppure, come si è accennato, nove giorni più tardi la stessa (Novendiale); essi potevano avere cadenza annuale (come i Parentalia), e tra questi un convivio solenne celebrato il 22 febbraio, detto Cara Cognatio, si svolgeva presso il sepolcro con i soli parenti del defunto e rappresentava l’occasione di assicurare la stabilità e l’unità della famiglia. La pratica del pasto funebre si configura dunque come un modo per assicurare le relazioni sociali e per riappacificare le famiglie. Nel cristianesimo, i banchetti diventano Refrigeria (rinfresco), indicando con questo termine il rinfresco tenuto per sollevare l’anima del defunto verso l’aldilà. Nella decorazione, la presenza del pesce e del pane, oltre a suggerirci che questi cibi erano facilmente reperibili grazie al fiorente mercato ittico e annonario di Roma, immediatamente rinvia al mistero eucaristico. A questo proposito, il Wilpert introduceva la possibilità che l’affresco si ispirasse alla liturgia della Fractio Panis. In ragione di quanto detto finora, dunque, non è escluso che il dipinto di Priscilla avesse anche un significato eucaristico.

La Cappella Greca è un “monumento altro” rispetto al resto delle testimonianze coeve. Oltre alle pitture, la sua decorazione comprende rilievi in stucco dipinto, liberamente ispirati ai racemi d’acanto dell’Ara Pacis, di ambientazione dionisiaca e probabilmente di alta committenza. I temi iconografici che popolano le pareti, l’assenza di loculi e la particolare sontuosità della decorazione, non fanno ritenere la Cappella un ambiente esclusivamente funerario. Sembra, piuttosto, che essa fosse un luogo di riunione, forse di catechesi. Sulle pareti della cappella compaiono i seguenti temi iconografici:

-                     I tre giovani fanciulli alla fornace, l’idolo di Nabucodonosor e Daniele;

-                     Mosè intento a battere la rupe;

-                     La personificazione dell’Estate (caratterizzata da papaveri e fiordalisi) inserita entro un clipeo;

-                     Susanna e i vecchioni e Susanna orante;

-                     L’Adorazione dei magi, episodio che fa parte del ciclo cristologico e non del ciclo mariano, giacché quest’ultimo prende avvio dal 431, ovvero a partire dal Concilio di Efeso.

-                     La fenice sul rogo ardente. Secondo Erodoto, la fenice era un uccello mitico,  e il suo mito solare era ambientato a Heliopolis. La Fenice poteva vivere dai 500 ai 1000 anni, trascorsi i quali moriva per autocombustione. Proprio per queste sue particolari caratteristiche, essa divenne simbolo di palingenesi e, in seguito, con l’avvento del cristianesimo, simbolo della resurrezione del Cristo.

-                     La Resurrezione del paralitico.

I numerosi ed eterogenei temi iconografici presenti nella Cappella Greca suggeriscono un ricco alfabetario visivo, nel quale la fenice funge da chiave di volta. Susanna è qui protagonista di due diverse scene: in una scena è insidiata dai vecchioni, nell’altra è orante. Il maestro, meglio ancora il committente, vuole raccontarci una storia utilizzando due fotogrammi; ci racconta che Susanna, in un primo momento venne molestata dai vecchioni e che, successivamente, fu prosciolta da ogni accusa grazie all’intervento divino. L’atto di impositio manuum è a questo proposito eloquente. Esso può significare un atto di accusa, come in questo caso, oppure di purificazione, di catechesi o di guarigione. Del resto, in ambito catacombale ricerca della narrazione molto spesso equivale a perseguimento di finalità didattico-educative. Quanto allo stile delle pitture, nei tre giovani alla fornace e nel più armonico idolo che li sovrasta sono riconoscibili differenti mani.
 Nella calotta di destra figurano delle iscrizioni in greco e l’episodio di Daniele fra i leoni con la città di Babilonia sullo sfondo, particolare inusuale in questo contesto, che lascia ritenere l’esistenza di un modello miniato alle spalle.
Venendo al criptoportico, l’ambiente era decorato con linearità rosso-verdi, sull’esempio dell’ipogeo degli Aureli datato al 230 d.C. ca. Il restauro del 1992 ha messo in evidenza la scala di accesso all’arenario, la quale si collegava alla Madonna di Priscilla. Nei gradoni creati per la costruzione della scala, un sarcofago con scene pastorali, espressione di quel sincretismo religioso ampiamente diffuso in età tardo antica, venne alla luce e fu oggetto di studio. Esso mostra vari pastori variamente atteggiati e inseriti all’interno di un locus amoenus. I pastori svolgono attività ludiche con cani e ovini. Ai lati del sarcofago sono rappresentate delle ceste ricolme di frutta. Il sarcofago era già pronto prima di essere utilizzato, come possono dimostrare un ampio ventaglio di prodotti di età tardo antica, il volto sbozzato, non finito, del defunto e il pallio enfiato, utile per rappresentare sia le donne sia gli uomini. I fori denunciano un forte uso dei trapani: quello a cinghia venne usato anche nella Lastra di Urbino appartenente a Eutropos. Altri elementi sono lavorati con gli scalpelli a punta fina e piatta. In origine, il sarcofago poteva essere policromo. L’occhio levato e l’atteggiamento dei pastori a metà fra il corrucciato e il patetico datano il sarcofago all’età gallienica. 

IL CUBICOLO DEI BOTTAI 


Più tardo rispetto agli altri, il cubicolo si data al pieno IV secolo, più precisamente al 320-330, in piena epoca costantiniana. A dimostrarlo uno stile pittorico semplice e un’architettura che fa intuire i grandi risvolti del IV secolo. Nell’emicalotta è un pavone sul globo e nell’arcosolio di fondo è situata la scena che ha poi denominato il cubicolo, nella quale otto personaggi trasportano una botte. Vestiti con una tunica exigua clavata le figure, dai volti deturpati a causa della loro damnatio memoriae che sarebbe avvenuta nel XVII secolo, sono munite di bastoni. Come dimostra la mancata caratterizzazione dei personaggi ritratti nella scena, il cubicolo apparteneva probabilmente a una corporazione, uno dei tanti collegia funeraticia del tempo. Questo collegio desiderò rappresentare nel proprio sepolcro una scena che rappresentasse il mestiere cui essi erano deputati in vita. Che si tratti di trasportatori di botti (o vinari), di fabbricatori di botti o ancora di distributori di prodotti, poco importa; interessanti, invece, sono i riferimenti "realistici" della pittura. Sui quarti della volta sono rappresentate scene della vita di Giona e di Noè, caratterizzato dalla consueta colomba.


Bibliografia principale:
V. Fiocchi Nicolai, F. Bisconti, D. Mazzoleni, Le catacombe cristiane di Roma, Regensburg 1998.


mercoledì 9 gennaio 2013

Roma cristiana: le catacombe di Commodilla


Le catacombe di Commodilla sono site in Roma, precisamente in via delle Sette Chiese, non molto lontano dalla via Ostiense (vedi MAPPA). Esse sono anche conosciute con il nome dei Ss. Felice e Adautto. Queste due antiche denominazioni, che risultano sia nell’Index coemeteriorum del VI secolo, sia nel Martirologio geronimiano di V secolo, si devono principalmente a due motivazioni: Commodilla era la proprietaria del fundus donato alla comunità cristiana per instaurarvi la catacomba, mentre Felice e Adautto erano i martiri eponimi venerati nella catacomba. Nella Depositio martyrum, della metà del IV secolo, invece, le due diciture scompaiono, per poi ritornare negli Itinerari di VII secolo (il De locis, la Notitia ecclesiarum e il Malmesburiense).



La prima scoperta degli ambienti avvenne sul finire del Cinquecento, per merito del Bosio, che pensò di trovarsi nella catacomba di Lucina. Oggi, grazie alle campagne di fine Ottocento dello Stevenson, per cimitero di Lucina si intende l’area subdiale alla basilica di San Paolo f. l. m. che comprendeva il cimitero in cui era stato deposto san Paolo. 
La volta della Basilichetta, che fu riscoperta solo nel Novecento, è di restauro. Luogo di venerazione dei martiri Felice e Adautto dal momento della sua costruzione, l’ambiente assunse la conformazione attuale solo nel VI secolo, a seguito degli interventi promossi da papa Giovanni I (523-526). Prima di allora, lo spazio era delimitato da una galleria con sepolture terragne, mentre il pavimento, ora rialzato, era in origine piano. La prima galleria non andava oltre il confine delle sepolture ed era accessibile dalla metà circa dell’odierno ambiente. Sviluppata parallelamente alla basilica, essa era dotata di un piccolo braccio, delimitando l’antico ingresso dell’ambiente.
A Commodilla non vi è nulla che rimandi a un’epoca precostantiniana. Come in Priscilla, dove si riscontrano larghe gallerie dotate di volte abbassate e dalla sezione a ferro di cavallo, la catacomba era originariamente una cava di arenario. L’ambiente era inizialmente adibito a un uso sepolcrale privato e fungeva pertanto da vero e proprio Ipogeo, che, sfruttando le antiche gallerie di pozzolana, fu in seguito predisposto alla venerazione dei Ss. Felice e Adautto, probabilmente per volontà della stessa Commodilla. Nella prima metà del IV secolo, la situazione rimase pressoché invariata, giacché, a differenza di altri cimiteri coevi, non vi fu un’esplosione di sepolture. L’Ipogeo privato passò alla comunità cristiana con papa Damaso (366-384). A questo proposito, da un frammento di epigrafe ritrovato in situ - il cui testo è tradito da una silloge medievale – si evince come Damaso abbia dato nuovo risalto alle tombe dei due martiri. Il testo ricorda che egli ristrutturò una singola tomba. È probabile, dunque, che i due martiri, periti fra le persecuzioni di Valeriano e di Diocleziano, fossero stati sepolti nella parete di fondo dell’attuale basilichetta, verosimilmente sulla sinistra venendo dallo scalone di accesso, dove sono stati ritrovati due loculi sovrapposti, uno aperto e l’altro chiuso. Le Passiones, alle quali si fa riferimento per la ricostruzione del loro martirio, sono documenti tardi e pertanto meno attendibili dei carmi e delle testimonianze epigrafiche fatte apporre in catacomba nella seconda metà del IV secolo dai papi Damaso e Siricio (384-99). A Damaso si deve la prima sistemazione consistente delle pareti, originariamente decorate ad affresco, che prevedeva, al posto dell’attuale calotta absidale, una parete piana con un’epigrafe e probabilmente una transenna. La sistemazione è analoga a quella che il noto pontefice aveva prospettato in molti cimiteri di Roma. Resti di pittura di età damasiana mostrano due personaggi acclamanti un cristogramma. Al centro è un contenitore di rotuli (volumina), perfettamente in linea con una serie di decorazioni contemporanee che esaltano la verità, la legge, e la dottrina di Cristo. Dopo Damaso, la scoperta delle tombe dei martiri e la venerazione fomentata dallo stesso papa verso Felice e Adautto fecero in modo che la catacomba prendesse realmente avvio come luogo di culto. Ciò comportò la costruzione di nuclei più consistenti di sepolture. Commodilla divenne così un vero e proprio retro sanctos, un luogo in cui, per la vicinanza ai martiri venerati, i fedeli desideravano essere deposti. A questo scopo, nella seconda metà del IV secolo, nacque la galleria di cui prima si accennava.
La topografia delle catacombe evolse molto fra III e IV secolo. A Commodilla, la galleria, al fine di sfruttare intensivamente lo spazio, non lascia alle famiglie dei defunti la possibilità di personalizzare la tomba del proprio morto, come dimostra il tipo di sepoltura a loculo che la caratterizza. Ritrovata dagli archeologi pressoché intatta e illesa dalle depauperazioni dei corpisantari, questa galleria è utile per stabilire una cronologia attendibile. A partire dalla fase di Giovanni I, per tutto il Medioevo e l’epoca moderna, infatti, essa rimase chiusa e quasi del tutto intatta. In alcuni punti, nella malta di fissaggio dei loculi furono apposti dei piccoli oggetti: dei vetri o dei materiali luminescenti, destinati non tanto al riconoscimento della tomba, ma più presumibilmente al suo abbellimento. La Regione di Leone, luogo in cui si trova il cubicolo dell’ufficialis annonae che impose il nome alla regionefu scoperta negli anni 50. Il cubicolo di Leone è di natura privata, sebbene faccia parte della catacomba stessa.
Si continuò a seppellire in Commodilla fino ai primi decenni del V secolo; in seguito la catacomba cadde in disuso e si preferì seppellire sub divo. Essa divenne piuttosto un punto di riferimento per i pellegrinaggi. L’intervento promosso da Giovanni I comportò l’allargamento della parete, la creazione di due calotte absidali e una conformazione dell’ambiente che oggi si può intuire come una basilica semipogea. 

Le passiones di V-VI secolo narrano il martirio di Felice e Adautto, due presbiteri fratelli. Felice sarebbe stato martirizzato in prossimità di una cavità sulla quale sorgeva un albero; Adautto è l’appellativo attribuito al fratello di Felice - il cui reale nome è sconosciuto - che deriva dal latino adauctus, aggiunto, al martirio. Secondo le fonti, dopo il supplizio i due corpi furono deposti nella cavità formatasi in seguito allo sprofondamento dell’albero stesso, cavità che dovrebbe corrispondere alla memoria di un luogo semipogeo: la basilichetta creata da Giovanni I. Nell’occasione della sua costruzione si rialzò il presbiterio e si chiuse la "galleria intatta", mentre continuò l’opera di abbellimento dell’ambiente. La sistemazione damasiana fu smantellata. Nel catino di sinistra, l’epigrafe voluta da Damaso fu posta a coprire gli affreschi e il mosaico preesistenti. Quanto all’altra calotta, alcuni studiosi tedeschi provarono a ricostruirne la decorazione, nella quale si scorge a malapena un personaggio in trono, Cristo, mentre tracce di colore indicano l’esistenza di un altro personaggio posto alla sua destra, e di un tronco di palma. Questa decorazione doveva mettere in risalto la ragione del martirio. In occasione dei lavori di Giovanni I venne edificato uno scalone monumentale (quello che si percorre per accedere alla basilichetta), verosimilmente un passaggio creato ad hoc per meglio convogliare le masse di pellegrini.
Nel VI secolo la basilica era l’unico ambiente frequentato nella catacomba e lo scalone doveva consentirne un accesso agevole. In origine l’ingresso era posto sopra la calotta. Dalla prima galleria, una scala parallela molto ripida dava accesso a un altro passaggio laterale scavato nella pozzolana. La frequentazione dell’ambiente si intensificò nel corso del VII secolo. Numerosi pellegrini vi affluirono da tutta Europa, come dimostrano alcuni graffiti devozionali in alfabeto latino e runico rintracciati sulla parete di fondo, collocabili fra il VII e il IX secolo. La venerazione del sepolcro dei due martiri continuò fino all’epoca di Leone IV, quando le loro reliquie furono trasferite altrove. In seguito, il luogo, nato in virtù dei martiri, decadde fino a quando il Bosio, sul finire del Cinquecento, ne rintracciò gli ambienti.


L’affresco di Turtura

L’iscrizione dipinta sotto l’affresco ne inquadra il soggetto. Il suo cattivo stato di conservazione è dovuto a un tentativo di distacco per mano dei tombaroli. Nonostante, durante il restauro, i frammenti dell’affresco di Turtura fossero stati pazientemente ricomposti, il suo stile ne risultò pesantemente alterato, come dimostrano alcune foto precedenti all’intervento e le fotografie acquerellate del Wilpert. Questi ultimi, in particolare, mostrano come prima i personaggi fossero resi con maggiore delicatezza e come l’attuale fattura del volto di Turtura non renda giustizia alla vedova. La Vergine è seduta su un trono gemmato e ha in braccio il Bambino. Ai lati figurano Felice e Adautto, che introducono la defunta Turtura. Per questa pittura si pone un notevole problema di cronologia, giacché la critica tedesca – autore del corpus su Commodilla – spinge per una datazione al VII secolo, mentre oggi una sua collocazione entro la metà del VI secolo appare più convincente in ragione di un’epigrafe pavimentale ritrovata in situ. L’iscrizione pavimentale è datata al 527-28 e ricorda la bontà e la castità di Turtura che, dopo la morte del marito, si era esclusivamente dedicata alla cura dei figli. La dicitura dell’epigrafe viene associata alla narrazione fatta all’interno dell’epigrafe affrescata. Dal punto di vista dello stile, questi affreschi sono molto distanti dalla maggior parte delle testimonianze pittoriche di VI secolo. Frontalità e inconsistenza dei volumi determinano un procedimento di iconizzazione, per certi aspetti lontano dalla tradizione naturalistica romana. Si tratta di una pittura poco nota a Roma, i cui canoni sono così ripetitivi da essere iconograficamente poco inquadrabili e, allo stesso tempo, distanti dalle limitrofe pitture del cubicolo di Leone, sempre in Commodilla. La fissità dei personaggi introduce in una dimensione avulsa da quella umana, contermine, per linguaggio, ai mosaici di Ravenna.

L’affresco con san Luca
Pur appartenendo a una fase pittorica differente, l’affresco si lega da un punto di vista stilistico a quello di Turtura. È probabile che il committente abbia scelto di riprodurre l’immagine di san Luca per una contiguità topografica con la basilica di San Paolo f. l. m., dove era attestato il culto del santo discepolo di Paolo. Egli è rappresentato con una borsa e con gli strumenti del medico, sua professione. Caratteristiche stilistiche di VI secolo, come la frontalità, il grande nimbo coronato da due cornici - una chiara e l’altra scura - i curati tratti del volto, conducono a una datazione dell’affresco al tempo di Costantino Pogonato (VII secolo).

L’affresco con la Traditio Clavium
Il Cristo sul globo è imberbe, porta i capelli lunghi e ha un volto dai connotati fisiognomici diffusi a decorrere dal V secolo in poi, soprattutto a Ravenna. Ai suoi lati sono Pietro e Paolo. Si tratta di una scena di Traditio clavium. L’affresco è datato al VII secolo. I moduli espressivi paleocristiani subiscono variazioni ma rimangono qui ancora evidenti. I nimbi presentano cornici concentriche e l’abito di Cristo ha una connotazione violacea tipicamente apocalittica. Il Codice nelle mani del Cristo è chiuso e gemmato, e richiama l’Apocalisse. Pietro e Paolo presentano dei rotuli. Intorno al nucleo centrale, compaiono i santi Felice e Adaùtto, Stefano e Merita o Emerita, entrambi oranti. Le fonti ricordano una santa Merita seppellita presso i martiri Felice e Adautto, sebbene gli scavi non abbiano poi confermato questa informazione. La presenza di santo Stefano si deve alla vicinanza topografica con la basilica di San Paolo, dove esisteva un oratorio a lui dedicato. È probabile che prima di questa decorazione ne esistesse un’altra, oggi perduta. 

L’affresco con Merita o Emerita orante
Si tratta di un altro affresco di VII secolo, probabilmente realizzato dallo stesso pittore della Traditio clavium, come si evince dal trattamento dei volti e della linea suolo. L’epigrafe segnala il nome del personaggio centrale: è Merita, santa associata alle sepolture dei due martiri eponimi rappresentati ai lati. 

La Regione di Leone


Il Cubicolo di Leone è parte integrante della catacomba, anche se costituisce un nucleo privato. Leone era un Ufficialis annonae, l’ente che si occupava dell’approvvigionamento di viveri per la città. Nel cubicolo si apprezza un’autorappresentazione minima del defunto, mentre la maggior parte della decorazione è affidata a un tema cristiano. La volta con il busto di Cristo e il tema dell’esaltazione di Pietro spiccano sul resto della decorazione. La sua datazione è ascritta all’ultimo trentennio del IV secolo (370-385). L’ingresso del cubicolo presenta una decorazione con l’Agnello centrale e 12 colombe laterali, una zoomorfizzazione di Cristo fra gli apostoli. Il Busto di Cristo, dal volto apocalittico, attorniato dalle lettere alfa e omega, è inserito in un cassettonato, dove vi fu sovrapposto in un secondo momento. Nel cubicolo predominano temi cristologici. Sul fondo un Cristo giovanile sorregge un codice aperto – a indicare la Rivelazione - ed è circondato dai ss. Felice e Adautto. Sulle pareti laterali un'immagine con due santi poco caratterizzati acclamanti un cristogramma e la capsa di rotuli al centro richiamano la decorazione damasiana; più avanti ancora si nota una zoomorfizzazione del miracolo della moltiplicazione dei pani, con il Cristo agnello. Un altro frammento di pittura mostra l’Agnello centrale – Cristo fra due ovini laterali. Sul lato sinistro della parete di fondo è rappresentata una santa Agnese orante con l’attributo dell’agnello. Sulla destra della parete di fondo, invece, compaiono degli episodi particolari: il Raptus Pauli - il momento in cui Paolo viene portato al terzo cielo - che si sviluppa come una vera e propria visione teofanica, nella quale il Cristo si affaccia da una sorta di balaustra (II Corinzi, 12, 2); e l’episodio, forse tratto dagli atti degli apostoli, dell’eunuco di Camdace convertito, altrimenti interpretato come una scena di ultimo viaggio, tema pagano che ben si attaglierebbe al sepolcro di un funzionario dell’annona. A destra e a sinistra si svolge il tema petrino, con il Miracolo del battesimo di Processo e Martiniano - che riprende lo schema di Mosè che percuote rupe – in cui i Carcerieri sono connotati come militari dai berretti pannonici, e con la scena del Ter negabis, nella quale Pietro rinnega Cristo. Le due scene petrine si riferiscono alla salvezza portata da Cristo e dal nuovo testamento, del quale protagonista è Pietro che, pur peccando, redime se stesso e l’umanità. 

Bibliografia principale:
V. Fiocchi Nicolai, F. Bisconti, D. Mazzoleni, Le catacombe cristiane di Roma, Regensburg 1998. 




sabato 5 gennaio 2013

Roma medievale: l'Oratorio mariano di Santa Pudenziana










Evidenziate dai restauri del 1928-30, le testimonianze delle trasformazioni operate in epoca romanica sulla basilica di Santa Pudenziana a Roma consistono negli affreschi dell’oratorio, nella struttura interna della chiesa, nel campanile e nei rilievi del portale. Alle spalle dell’abside si trova l’oratorio mariano, decorato ad affresco. Sulla parete di fondo la Vergine con il Bambino è affiancata da santa Pudenziana e da santa Prassede, contraddistinte dalla corona del martirio; sulla sinistra, nel registro superiore, è la Conversione e il Battesimo dei figli di Pudente a opera di san Paolo, in quello inferiore il Battesimo delle sante e l’ordinazione di Novato. Sulla parete opposta è un angelo che incorona i santi Cecilia, Valeriano e Tiburzio.  Lo spazio della volta, diviso in cinque campi da cornici decorative, accoglie l’Agnus Dei circondato dai Viventi, accompagnati da iscrizioni. Caratteristiche di questa decorazione apocalittica sono, da un lato, la rappresentazione del Tetramorfo sulle quattro vele e, dall’altro, la presenza di iscrizioni identificative, disposte sotto i singoli simboli degli Evangelisti secondo un andamento curvilineo che segue la concavità della superficie. Le lettere sono bianche su fondo verde, mentre la scrittura è in capitale. I testi sono in versi leonini (san Marco; san Luca) e in esametri (san Giovanni e san Matteo). L’iscrizione Vox clamantis ais qua Marce leone notaris in corrispondenza del leone di Marco appare frammentaria. In prossimità dell’evangelista Giovanni si legge oggi Alta nimis scandit facies aquilina Ioh(ann)is, sebbene sui disegni di Cassiano del Pozzo sia riportato il verso Arcanis scandit facies aquilina Ioh(ann)is. Anche l’epigrafe dipinta Frons hominis pandit chr(ist)i com(m)mercia carnis in corrispondenza di Matteo è molto lacunosa; mentre quella che si riferisce a san Luca, Luca boantis species (sor)te mutat arantis, non è più visibile[1]. I tituli dovevano indicare le singole caratteristiche dei quattro redattori, teorizzate da Girolamo, riprese dal Carmen Paschale di Sedulio, da Gregorio Magno e da letterati e teologi di epoca carolingia e confluite, alla fine del XIII secolo, nello Speculum di Vincenzo di Beauvais. Secondo la lettura di Morey l’iscrizione Arcanis scandit facies aquilina Ioh(ann)is si presenterebbe, nel significato, contigua ai versi Scribendo penitras caelum tu mente, Johannes del Codex Aureus di Sant’Emmerano. L’epigrafe esegetica disposta sotto il simbolo di san Marco Vox Clamantis ais qua marce Leone Notaris ben si attaglierebbe al titulus More boat Marcus frendentis voce leonis, sempre tratto e rielaborato dallo stesso codice e ai versi Marcus ut alta fremit vox per deserta leonis del Carmen Paschale di Sedulio[2].
Oggi i simboli di Marco, di Matteo e di Giovanni si presentano mutili e in cattivo stato di conservazione[3]. La loro ubicazione sulla volta trova confronti nelle antiche raffigurazioni di Santa Matrona in San Prisco a Santa Maria Capua Vetere e del Mausoleo di Galla Placidia a Ravenna (prima metà del V secolo), dove gli Animali compaiono assieme al trono etimatico o, nel caso ravennate, alla croce del Risorto, qui sostituita dall’Agnus Dei al centro della composizione[4]. Secondo l’assetto riscontrato a S. Pudenziana, il Tetramorfo compare nella decorazione della Cappella Arcivescovile di Ravenna (fine V secolo), segnatamente sulle vele della volta a crociera scandite da quattro angeli delineati lungo la linea ascensionale delle costolonature. L’immagine dell’Agnello nel clipeo centrale, connessa con i simboli Evangelici delle lunette, faceva parte anche del perduto programma decorativo del sacello di San Giovanni Battista al Laterano (V secolo), che propone un’iconografia attestata, qualche secolo dopo, anche nell’area presbiteriale di San Vitale e diffusa soprattutto nell’Oriente Cristiano[5].



[1] Le integrazioni delle iscrizioni sono state possibili grazie al disegno acquerellato di Eclissi, alla lettura del Morey (1915) e al contributo di Wilpert (1916): C. R. Morey, Lost mosaics and frescoes of Rome of the mediaeval period: a publication of drawings contained in the collection of Cassiano dal Pozzo, now in the Royal Library, Windsor Castle, Princeton University Press 1915; S. Riccioni, Iscrizioni, in CROISIER 2006, pp. 199-206. Vedi anche A. Trivellone, Il cosiddetto oratorio mariano della chiesa di S. Pudenziana e i suoi affreschi: nuove considerazioni, in ROMA E LA RIFORMA GREGORIANA 2007, pp. 305-330.
[2] Cfr. MOREY 1915, p. 47; Sedulio, Carmen Paschale, v. I, p. 355: CSEL X, p. 42. Sul finire del XII secolo, concetti di questo tipo permearono il pensiero di Adamo di San Vittore (1172-1192), cui si deve l’elaborazione dei seguenti versi: Marcus, leo per desertum/ Clamans, rugit in apertum / Iter fiat Deo certum / Mundum cor a crimine./ Sed loannes, ala bina / Caritatis, aquilina / Forma fertur in divina / Puriori lumine.
[3] J. Croisier, La decorazione pittorica dell’oratorio mariano di Santa Pudenziana, in CORPUS IV 2006, pp. 199-206.
[4] UTRO 2000c, pp. 286-287.
[5] Cfr. PENNESI 2006, pp. 428-432; G. Bovini, Ravenna. Mosaici e monumenti, Ravenna 2003, pp. 123-129.
[6] A proposito dello stile, sono stati messi in evidenza alcuni punti di contatto con i dipinti murali dei sotterranei del Sancta Sanctorum, con quelli della basilica di Sant’Anastasio a Castel Sant’Elia (Nepi), della Pieve di Vallerano e della Grotta degli Angeli a Magliano Romano: PARLATO-ROMANO 2001, pp. 171-178, 322-323; CROISIER 2006, pp. 199-206. A giudizio di Matthiae, la presenza di alcune precise soluzioni formali rende le pitture il precedente immediato per gli affreschi della chiesa inferiore di S. Clemente: MATTHIAE 1966 [1988], pp. 21-24. Per Demus, esse vanno collocate al primo quarto del XII secolo: O. Demus, Romanische Wandmalerei, München 1968, pp. 57,121. Gandolfo, invece, ne ha proposto una datazione alta, ritenendo i dipinti inseriti in una diversa corrente pittorica, da legare alla cultura dei maestri attivi nella chiesa sotterranea di San Crisogono. Cfr. F. Gandolfo, Aggiornamento scientifico, in MATTHIAE 1966 [1988], p. 254; PARLATO-ROMANO 2001, pp. 124-126.