sabato 20 ottobre 2012

Dalle «borzétte» di Enzina alle poesie di Bondi: una epopea


La professoressa Enzina Bono Parrino, tolto dalla «borzétta» un fazzolettino per asciugarsi una lacrimuccia, si versò commossa un bicchierino di Marsala. Era un giorno di novembre del 2010. Il deputato finiano Fabio Granata, ignaro del sollievo che avrebbe dato all’anziana preside in pensione, aveva appena pronunciato la fatidica sentenza: «Sandro Bondi è oggettivamente il peggior ministro dei Beni culturali della storia».
Tutta colpa, povera Enzina, della sua sincerità. Che subito dopo l’annuncio che sarebbe andata a giurare in Quirinale come responsabile dell’immenso patrimonio artistico, storico e monumentale, l’aveva spinta a schiantarsi in una dichiarazione suicida: «Per ora non so nulla, ma studierò. Mi chiuderò nel mio ufficio per una settimana a studiare». Una settimana! Una settimana per capire un mondo. Il fatto è che fare una graduatoria dei peggiori ministri dei Beni culturali è complicatissimo. La storia di questo dicastero la dice lunga sul rapporto tra il nostro Paese e le sue ricchezze, le sue bellezze, le sue fragilità, le sue contraddizioni.
 Meglio di così, in realtà, il ministero non poteva nascere. Nacque infatti su misura di uno degli intellettuali più colti del Ventesimo secolo, Giovanni Spadolini. Era la fine del 1974. Tutto iniziò con una telefonata. «Fu quando perse la direzione del “Corriere” nel 1972» racconta il grande costituzionalista Giovanni Sartori, amico suo dall’adolescenza. «Mi svegliò a metà notte (in quel momento era a Standtford, in California, e lui non badò alle nove ore di fuso orario che ci dividevano). Giovannone non se l’aspettava, era davvero smarrito. Mi raccontò che Malagodi si era fatto vivo per fargli le condoglianze (…) mentre Ugo La Malfa (più intelligentemente) gli aveva proposto un collegio per il Senato a Milano. Giovannone esitava: come si fa a scendere dall’impero di via Solferino a semplice senatore? Ancora sonnolento mi venne in mente di ricordargli che lui era il Padre della Patria, e dunque che perdere il “Corriere” non era sua sfortuna ma fortuna: era il segno che gli si apriva il percorso del suo vero destino. Confesso che dissi così per consolarlo. Fatto sta che subito dopo Spadolini telefonò a La Malfa accettando. Indovino io? No, bravo lui». Giovannone era davvero un peso massimo e non solo per stazza fisica. Aveva cominciato a scrivere la sua prima storia d’Italia quando aveva 15 anni, era diventato professore incaricato e aveva pubblicato Il papato socialista a 25, era diventato direttore del «Resto del Carlino» a 29, direttore del «Corriere» a 43. Insomma, era ingombrante perfino per la politica romana, di solito indifferente alla statura culturale dei suoi rappresentanti. Cosa fargli fare?
Il ruolo se lo cucì lui, su misura. Inventandosi quel ministero mai visto prima. Del quale definì lui stesso le linee fondanti. Era il dicembre del 1974. Poche settimane e un episodio clamoroso confermò quanto fosse indispensabile il dicastero: al Palazzo Ducale di Urbino sparì un Piero della Francesca. Lui, che voluminoso come era non aveva il profilo dell’uomo di azione, si precipitò sul posto, avrebbe ironizzato su se stesso, «come un lepidottero sopra un elicottero». Vide che i sistemi d’allarme erano un disastro, si dannò l’anima per strappare subito al governo una rete di antifurto. Che forse non fu risolutiva, ma certo bloccò un pericoloso andazzo.
Era un mostro, Spadolini. Aveva tenuto la sua prima conferenza a 17…Sapeva tutto, aveva letto tutto, ricordava tutto. Scriveva e scriveva. Con tanta abbondanza che oggi, il motore di ricerca del catalogo Sbn di tutte le biblioteche italiane annota, tra i libri, i saggi brevi, le prefazioni, i contributi vari a opere collettivi, la bellezza di 956 titoli...

Quanto ai paragoni con la grande maggioranza degli altri «eletti» via via subentrati alla guida del dicastero, meglio stendere un velo pietoso. Quale fosse il destino di quel ministero, infatti, fu chiaro fin dalla nomina del primo successore di Giovannone: Mario PEDINI. Possiamo immaginare che Spadolini levò gli occhi al cielo sospirando. Nel giro di tre anni, quel ministero che aveva fortissimamente voluto aveva già preso una brutta piega. Doveva essere, così l’aveva immaginato, il segno di una svolta. Di un riscatto. Di una presa di coscienza che quelle sono le nostre miniere d’oro: i siti archeologici, i musei, le gallerie, le biblioteche .Macché: era già diventato un dicastero secondario da smistare nella distribuzione delle poltrone a figure secondarie. E il peggio doveva ancora venire:Dario Antoniozzi,Egidio Ariosto,Oddo Biasini,Enzo Scotti. Fu con lui che grazie ai benefici della legge 285 per l’occupazione giovanile vennero assunti nel biennio 1981-82 interi battaglioni di custodi: 7000 in una botta sola. E fu con lui che vennero lanciati nel firmamento della politica tutti i bla-bla-bla nei quali da allora in poi si sarebbero esercitati tutti, Bondi compreso. L’idea di coinvolgere i privati. Le fondazioni e lo spazio ai manager. La «valorizzazione». Il capolavoro, però, è l’impegno sugli sgravi fiscali, il tormentone di ogni governo. 

Alberto Ronchey, scelto come «tecnico» da Giuliano Amato nel giugno del 1992 e confermato l’anno dopo da Carlo Azeglio Ciampi, fu un ministro coi fiocchi...Su un punto Ronchey era convintissimo: il patrimonio artistico, monumentale e culturale italiano è così importante che un ministro dovrebbe concentrarsi solo su quello...Pretendono che il ministero dei Beni culturali, ossia del patrimonio storico, debba fondersi con i resti del dicastero già dedicato insieme allo sport e allo spettacolo, con tredici enti lirici, innumerevoli compagnie di prosa, cinema, festival e circhi equestri che chiedono sovvenzioni a pioggia. Ma si confondono così tutela e produzione, riversando sullo Stato il rischio d’impresa che tanto è costato negli ultimi anni. Produrre film a rischio di gravi perdite non è come conservare, tutelare, valorizzare un patrimonio di valore sicuro anche se d’incalcolabile portata. La fusione con lo spettacolo mi ha sempre ricordato l’apologo surreale delle galline russe che propongono ai suini tedeschi società miste per fabbricare uova al bacon. È ragionevole?».
No, secondo lui: «Se il ministro dei Beni culturali si deve occupare di calcio e di festival del cinema o addirittura della produzione di un film, non fa un buon servizio né ai Beni culturali né al resto. Un ministro deve sapere come stanziare i finanziamenti per la conservazione, la valorizzazione, il restauro d’un dipinto, una scultura, un’architettura del suo patrimonio storico?».

Macché…

La svolta è con Walter VELTRONI. Che come uomo di punta del partito socio di maggioranza del governo Prodi rivendica non solo la vicepresidenza del Consiglio ma anche un ministero, come dire, «largo» alla Jack Lang, ministro della Cultura di François Mitterrand. Certo, dopo il ministero della Cultura Popolare Fascista, il famigerato MinCulPop, la parola è tabù…Ma quello è il ruolo che si ritaglia Veltroni: ministro al tutto. Con una delega allo Sport e agli Spettacoli…Per carità, Veltroni respingerà l’accusa di essersi troppo distratto con lo sport, il cinema, la musica e tutto il resto rivendicando di essere stato lui, ad esempio, ad avviare il processo di autonomia a Pompei. Vero. Ma certo è lui a inaugurare la terza stagione dei Beni culturali dopo quella spadoliniana e quella dei ministri di secondo piano. È dalla sua gestione in poi che quella scrivania torna a essere assai appetita anche da pezzi grossi dei partiti, come ad esempio Francesco Rutelli, Rocco Buttiglione o Sandro Bondi.
Ed è così che via via, come ha scritto Pierluigi Battista, «un ministero quasi di secondo piano» ha gradualmente «assunto un’importanza sempre maggiore, fino al punto di trasformarsi in quello “Stato culturale” che, soprattutto sulla scorta dell’esperienza francese di Jack Lang, viene criticato da Marc Fumaroli come una nuova e spregiudicata industria del consenso, oltre che una moderna vetrina del potere, con i ministri che passano il tempo a inaugurare le mostre del cinema, presenziare alle manifestazioni sportive, tagliare nastri davanti alle telecamere».

Telecamere in certi casi traditrici. Come accadde a Giovanna MELANDRI, la prima che, grazie al decreto legge n. 368 dell’ottobre 1998, ebbe il ministero cucito addosso con le nuove competenze allargate, comprese «le attribuzioni in materia di spettacolo, di sport e di impiantistica sportiva» e la «promozione delle attività culturali in tutte le loro manifestazioni con riferimento particolare alle attività teatrali, musicali, cinematografiche, alla danza e ad altre forme di spettacolo, inclusi i circhi e spettacoli viaggianti, alla fotografia, alle arti plastiche e figurative, al design industriale».
Accadde dunque che, presa da tanti impegni, la giovane e bella ministra «bigiò» la prima della Scala del 1998 del Crepuscolo degli dei. Il maestro Riccardo Muti se la prese, lei replicò scrivendogli una lettera: «Caro Maestro, sono sorpresa della sua sorpresa. Avevo da tempo comunicato al soprintendente Fontana che mi era purtroppo impossibile, per motivi del tutto personali, essere a Milano per l’inaugurazione». Ahi ahi … La sera dopo Striscia la Notizia rivelava quali erano quei motivi del tutto personali. Una cena organizzata dal Gambero Rosso con i migliori chef italiani. Dove aveva particolarmente apprezzato, riferirono le cronache, «Il foie gras preparato in dieci modi da Heinz Beck, tedesco naturalizzato romano, con un Arenarie di Sella e Mosca» e «la minestra di riso con le verze di Nadia Santini, preceduta da uno Chardonnay Planeta e profumata da un Taurasi Feudi di San Gregorio». Quanto bastava perché Roberto Formigoni, nella veste di governatore lombardo e di polemista berlusconiano, liquidasse un paio di anni dopo nuove polemiche scaligere così: «Dov’era due anni fa quella che oggi s’impanca a maestrina dalla penna rossa? Dove era la Giovanna Melandri alla “prima” di due anni fa? Alla serata del Gambero Rosso era. Era andata a magna’»…


Beni culturali, ministri per caso (dal libro Vandali. L'assalto alle bellezze d'Italia, di Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo - Rizzoli 2011)

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